Istituto Mario Negri – Bergamo
Outsourcing in nefrologia e dialisi: è davvero un modello auspicabile?
La parola outsourcing deriva dai termini inglesi outside e resourcing e si riferisce all’acquisizione di risorse e/o attività all’esterno. Secondo una diffusa definizione, l’outsourcing è quindi quella particolare modalità di esternalizzazione che ha per oggetto l’enucleazione di intere aree di attività, strategiche e non, e che si fonda su un contratto tra l’azienda che si esternalizza e un’azienda già presente sul mercato in qualità di specialisti [1]. In altri termini, un’azienda assegna stabilmente a un fornitore esterno, per un periodo di tempo contrattualmente definito, la gestione di una o più funzioni aziendali precedentemente svolte all’interno [2]. A partire dagli anni ’80 (’90 in Italia), l’outsourcing ha conosciuto una progressiva espansione nell’ambito del settore pubblico, legato al convincimento che certi processi produttivi possano essere gestiti meglio da imprese esterne specializzate, dato che non sempre l’azienda dispone al suo interno di tutte le competenze necessarie ad essere competitiva. Esistono diversi tipi di outsourcing: dall’ outsourcing tradizionale, caratterizzato da bassa complessità gestionale ed esternalizzazione di attività principalmente di supporto, al cosiddetto outsourcing strategico, caratterizzato da elevata complessità ed esternalizzazione di attività vicine al core business dell’azienda [3] [4].
L’outsourcing va tenuto distinto dalla partnership pubblico-privata [5]. Quest’ultima si riferisce alle pratiche attraverso le quali un’azienda privata finanzia, progetta, costruisce, sottopone a manutenzione e gestisce opere infrastrutturali tradizionalmente curate dal settore pubblico, ad esempio la costruzione di un’ospedale con il project financing; nella sua accezione più estesa, la partnership pubblico -privato identifica le pratiche attraverso le quali taluni servizi pubblici vengono gestiti in forme e strutture miste fra soggetti privati ed azienda pubblica. La partnership pubblico-privato, prevista dall’articolo 9 bis del decreto legislativo 502/1992, ha legittimato per la prima volta, in ambito sanitario, la possibilità di far interloquire pubblico e privato in forma strutturata e dentro i contorni della legislazione [6].
In sanità pubblica, dapprima sono stati oggetto di outsourcing le attività tecnico-economali -pulizia, manutenzione, riscaldamento, attrezzature-, quindi, più recentemente, le attività amministrative come gestione della contabilità, servizi informatici, controllo di gestione, servizi di facility management, e infine le attività di diagnosi e cura. Nell’ambito della nostra branca specialistica, in tempi ancora più recenti, il Centro di Ricerche sulla Gestione dell’Assistenza Sanitaria e Sociale (CERGAS) dell’Università Bocconi e il Centro Universitario di Studi in Amministrazione Sanitaria (CUSAS) dell’Università di Firenze si sono spinti a proporre l’esternalizzazione dell’intera filiera dei servizi nefrologici [7].
Potenziali rischi legati all’outsourcing in sanità
I sostenitori dell’outsourcing in sanità dicono che l’esternalizzazione consente di accrescere l’efficienza, ridurre i costi, creare opportunità di investimento ed occupazione al di fuori del settore pubblico, stimolare l’economia di mercato e garantire l’accesso a professionalità ed abilità non disponibili nell’azienda [8] [9]. Qualche anno fa, un gruppo di medici della Lombardia preparò un appunto, ribattezzato dal Corriere della Sera “Manifesto per la rinascita della sanità”, che diceva fra l’altro: “Gli Ospedali vanno riconosciuti come imprese art. 2082 del codice civile e art. 41, 43 della norma costituzionale, così anche le aziende ospedaliere pubbliche potrebbero operare con i criteri propri dell’imprenditorialità privata. Si ridurrebbero i vincoli di oggi e si potrebbe operare con i criteri e la flessibilità propri delle imprese private”. Tuttavia, quella dell’ospedale è impresa particolare, il cui fine non è la sopravvivenza, la crescita del fatturato e il profitto, ma la cura e la tutela della salute. In sede pubblica, il soggetto erogatore persegue obiettivi di salute in via esclusiva, o comunque prioritaria, nell’ esclusivo interesse degli ammalati, indipendentemente da ragioni di tornaconto personale. La missione di chi risponde a ditte esterne, invece, è quella della società che li paga, che quasi mai coincide con quella dell’ospedale. Quale interesse avrebbe un’azienda esterna, appaltatrice di servizi diagnostico-terapeutici di ospedale pubblico, a contenere la riduzione delle relative prestazioni privilegiando interventi meno complessi, meno invasivi e meno remunerativi? Quale interesse avrebbero i sanitari che dipendono dall’azienda esterna a partecipare a ricerche dirette a prevenire o curare le condizioni patologiche, che porterebbero, in prospettiva, al ricorso a prestazioni valorizzabili con una tariffa inferiore? Infine, quali poteri e responsabilità assume la direzione sanitaria del presidio ospedaliero nei confronti dei sanitari dipendenti dalla ditta esterna, o peggio vincolati da semplice contratto libero-professionale con la stessa?
Inoltre, l’idea che il pubblico sprechi e il privato porti efficienza e buone cure è sbagliata. A riprova di ciò, un recente documento della Public Services International Research Unit dell’Università di Greenwich, dall’eloquente titolo ‘Empty Promises: the impact of outsourcing on the delivery of NHS services’, esegue un’ analisi dettagliata dell’esperienza dell’outsourcing nel National Health System britannico [10]. Partendo dalla letteratura prodotta negli ultimi 10 anni, sono stati presi in esame i diversi segmenti dell’NHS interessati a vario titolo dal processo di outsourcing (servizi di pulizia, gestione delle risorse umane, servizi di information technology, facilities management ecc). Il lavoro conclude che “this project has identified a range of studies that have examined some aspects of outsourcing in the NHS and the effect on patient care. It is noticeable that much of the evidence demonstrates either the negative aspects of introducing competition into the provision of health care services or inconclusive results”. A titolo di esempio, prendendo in esame il settore delle pulizie, uno dei primi ad essere esternalizzato in Gran Bretagna negli anni ’80, la presenza di condizioni igieniche inadeguate in almeno un reparto ospedaliero era evidente nel 14% dei casi quando il servizio di pulizia veniva svolto da personale interno, contro il 38% dei casi in cui veniva utilizzato un external contractor [11]. Come conseguenza, la Scozia, l’Irlanda del Nord ed il Galles hanno deciso di non esternalizzare più i servizi di pulizia e un trend analogo si sta adesso osservando per il catering, le attività di facilities management ed i servizi di information technology. A proposito di questi ultimi, non vanno trascurati i rischi per la privacy dei malati, che deriva dall’affidamento di dati sensibili ad un gestore esterno.
L’ outsourcing in sanità è potenzialmente contrario alla mission del servizio pubblico, se il privato che acquisisca il contratto si pone comunque l’obiettivo del profitto. Esistono inoltre altri rischi dell’outsourcing in sanità. L’outsourcing fa sì che la soddisfazione dei servizi pubblici venga a dipendere dallo stato di salute economica del fornitore, per cui il rischio economico che ogni impresa privata si assume si trasferisce sull’utenza del servizio stesso. Quali garanzie di continuità del servizio appaltato può essere offerto da una ditta esterna, la cui attività può subire sospensioni, interruzioni o contenzioso contrattuale, come nel caso di fallimento?
Inoltre, l’outsourcing accresce potenzialmente la probabilità di corruzione, per via del più frequente ricorso ad affidamenti anche tramite gara [12]; riduce trasparenza ed accountability interponendo un intermediario fra amministrazione pubblica ed utente finale (l’ammalato nel caso dell’outsourcing dei servizi di diagnosi e cura) [13]; infine, aumenta il potere degli organi politici nelle amministrazioni pubbliche, a scapito di quello manageriale, e determina pressioni per l’assegnazione dei contratti, con conseguente aumento potenziale della spesa pubblica [14].
Un ulteriore aspetto, che spesso non viene adeguatamente considerato nella valutazione economica dell’outsourcing, è legato alla necessità di attivare nuovi organi aziendali che si occupino del controllo qualitativo dei servizi in outsourcing; molto spesso, i costi connessi all’attivazione di queste strutture di coordinamento e controllo non vengono tenuti nella giusta considerazione dai decisori, soprattutto nelle aziende sanitarie.
Beninteso, è certamente possibile che l’esternalizzazione di determinate attività aziendali, non di diagnosi e cura, possa portare a dei risultati migliori rispetto a quanto osservato in Gran Bretagna, soprattutto se si è molto accorti nella stesura e nella sorveglianza dei contratti e se si agisce per prevenire al meglio eventuali conflittualità fra provider privato del servizio e gestore pubblico della struttura [15] [16] (full text).
Outsourcing ed emodialisi
Nell’ambito specialistico nefrologico, l’emodialisi rappresenta certamente il settore che più di tutti è stato interessato dal processo di outsourcing, a partire dagli Stati Uniti, dove i grandi provider for-profit trattano oltre il 60% dei circa 300000 emodializzati in-center. Alla fine del 2009, 122216 pazienti prevalenti venivano trattati da Fresenius in 1742 centri, 110299 da DaVita in 1556 centri e 13023 da Dialysis Clinics Inc in 213 centri [17]. Un’analoga tendenza si riscontra da anni in tutto il mondo: America Latina, Asia ed Europa.
Il coinvolgimento delle grandi multinazionali sembrerebbe in apparenza vantaggioso per i sistemi sanitari nazionali. Infatti, i grandi provider di emodialisi sono in grado di fornire tutto ciò che occorre per il trattamento: macchine, filtri, aghi, materiali di consumo, e spesso anche personale medico, infermieristico ed ausiliare. Il risultato è che le multinazionali sono in grado di offrire dialisi a prezzi molto competitivi nei loro centri.
Perché, dunque, non caldeggiare proposte come quella del CERGAS e del CUSAS, esternalizzando l’intera filiera dei servizi nefrologici, incluso il personale infermieristico di dialisi?
Intanto, l’esperienza di altri Paesi industrializzati come gli Stati Uniti ci induce a ritenere che la logica del profitto, applicata ad un campo così delicato come la salute pubblica, possa comportare dei rischi per gli ammalati. Negli Stati Uniti, i centri di dialisi for-profit sono stati storicamente caratterizzati da una mortalità più elevata rispetto ai centri non-profit [18] (full text), come evidenziato molto chiaramente da un’epocale revisione sistematica pubblicata su JAMA: circa 2500 decessi in eccesso l’anno nelle strutture for-profit, rispetto alle non-profit [19]. Tale problematica era legata in primo luogo al fatto che i pazienti dializzati presso i centri for-profit ricevevano meno ore di trattamento dialitico, con conseguente aumento della mortalità [20] [21]. Altre problematiche, non meno serie, sono tuttora in gran parte presenti. Il costo del personale incide per circa il 70% sui costi totali della dialisi, per cui i centri di dialisi for-profit statunitensi utilizzano meno personale infermieristico per seduta di dialisi [20], e spesso più licensed practical nurses che registered nurses [20] [22].
Sebbene negli ultimi anni la mortalità registrata presso i grandi provider come Fresenius e DaVita sia diminuita, va evidenziato con forza come l’unico provider di dialisi che vanta dei tassi di ospedalizzazione e mortalità significativamente e consistentemente inferiori alla media nazionale (una delle più alte al mondo [23]) sia Dialysis Center Inc, un’organizzazione non-profi [17] [24]. Questo provider non-profit garantisce non solo la migliore qualità delle cure, ma anche i costi più bassi per il sistema Medicare [25]. Allora, come mai il governo statunitense ha recentemente approvato un nuovo sistema di rimborso che favorirà l’acquisizione di ulteriori quote di mercato da parte dei grandi provider for profit, a scapito delle organizzazioni non profit [26]? Le decine di migliaia di emodializzati in eccesso deceduti negli ultimi 20 anni, mentre i fatturati dei provider for profit crescevano invece senza sosta, non dovrebbero costituire un deterrente sufficiente a proseguire nella stessa direzione, o ad esportare altrove questo modello?
Il trattamento emodialitico è gravato da costi elevatissimi per i sistemi sanitari: circa 40000 euro l’anno per paziente [27]. Incrementare il numero dei trapianti renali consentirebbe pertanto degli enormi vantaggi, anzitutto per la salute dei pazienti [28] [29], ed in subordine per le casse dello Stato [30]. Eppure, è noto da anni come i pazienti emodializzati trattati presso i centri for-profit vengano sottoposti più raramente a trapianto di rene. Uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine nel 1999 ha evidenziato come i dializzati dei centri for-profit statunitensi avessero una probabilità del 26% inferiore di essere immessi in lista trapianti [31]. Dato che la dialisi rende, i centri non hanno grande interesse ad avviare i pazienti ad una lista di trapianto. In Italia, succede spesso il numero più basso di trapianti sia effettuato proprio in quelle Regioni dove è più alta la spesa per la dialisi.
Inoltre, prima dell’approvazione del nuovo piano di rimborsi nel 2011 [26], i provider for profit statunitensi erano incentivati a sovraprescrivere farmaci come l’eritropoietina per ottenere maggiori rimborsi, con un enorme ed inutile aggravio sul sistema Medicare [32] [33] [34]. Tanto più che valori più alti di emoglobina sono associati ad un maggior rischio di eventi cardiovascolari e morte negli emodializzati, cosa ormai ampiamente accettata persino negli Stati Uniti [35], ma di cui si discuteva già dieci anni fa.
Da ultimo, ma non certo per importanza, esistono ulteriori motivi di grande preoccupazione per il futuro, soprattutto alla luce dell’attuale congiuntura finanziaria internazionale. Gli azionisti delle aziende private di dialisi si attendono generalmente un ritorno del 10-15% sui loro investimenti [36]. I provider privati devono inoltre provvedere al pagamento delle tasse, il cui peso relativo varia anche notevolmente da nazione a nazione [37]. Tipicamente, però, il sistema di rimborso dei trattamenti emodialitici è relativamente rigido, sia negli Stati Uniti [19] che in altri Paesi come l’Italia; i provider privati di emodialisi si trovano pertanto nella situazione di dover generare profitti per i loro azionisti, pagare le tasse e al tempo stesso garantire degli standard di cura sovrapponibili a quelli del servizio pubblico. Le aziende private for profit, in altre parole, sono invariabilmente spinte ad aumentare il fatturato, mentre sono meno interessate ad interventi di prevenzione che impediscano ad un ammalato di finire in dialisi (e allo Stato di risparmiare molti soldi).
Contestualizzando il problema, l’Italia è gravata da un debito pubblico elevatissimo, con numerose Regioni interessate da piani di rientro (Campania, Lazio, Puglia) o sull’orlo del default (Sicilia). In queste Regioni, il privato for profit gestisce una quota significativa dei pazienti emodializzati totali. Anche nelle regioni più “virtuose”, sono previsti dei tagli molto importanti alla sanità pubblica nei prossimi anni, che avranno ripercussioni molto negative sui sistemi sanitari regionali e sugli standard di cura degli ammalati. In caso di un’ipotetica riduzione dei rimborsi erogati dal Sistema Sanitario Nazionale, e quindi dei margini di profitto, oppure di un’eventuale dilatazione dei tempi di rimborso delle prestazioni dialitiche, il provider privato reagirebbe verosimilmente in tre modi principali:
- riducendo i costi, in primo luogo del personale con inevitabile aumento del turnover;
- cercando di aumentare il fatturato, ovvero il numero di trattamenti dialitici;
- dismettendo la clinica/le cliniche. Quali garanzie di continuità può offrire un provider privato di dialisi for profit, allorquando la minor rimuneratività dell’attività stessa spingesse a rivolgersi ad altre modalità di trattamento con un rimborso migliore, o a spostare le proprie attività in altre Regioni, o peggio in altri Paesi?
La centralità del ruolo dell’infermiere in emodialisi
I rischi legati all’aumento del turnover del personale di dialisi, in particolare infermieristico, meritano di essere discussi in dettaglio. Del tutto recentemente, infatti, sta emergendo una tendenza che mira, nemmeno implicitamente, a ridurre l’infermiere di dialisi da figura professionale di primaria importanza a mera comparsa, rimpiazzabile a piacimento in quanto non portatrice di conoscenze critiche per l’erogazione della dialisi. La logica è chiara: sminuire il ruolo dell’infermiere per preparare il terreno ad un’ esternalizzazione sempre più massiccia del personale, con tipologie contrattuali sempre meno vantaggiose sia dal punto di vista della retribuzione che della stabilità lavorativa, in modo da mantenere adeguati margini di profitto qualora il taglio dei rimborsi imponesse ai provider privati for profit la riduzione delle spese. Nel recente documento del CERGAS/CUSAS, si legge tra l’altro che “…Le risorse infermieristiche, centrali per l’erogazione di assistenza per pazienti prevalentemente cronici come i nefropatici, sono state tra le prime che il nefrologo ha sciolto dai vincoli del funzionamento aziendale. Come anticipato, la convenienza al rifornimento esterno di risorse umane si manifesta quando le persone non devono apportare conoscenze critiche per il processo erogativo, poiché metterebbero in dipendenza l’organizzazione dalla loro presenza/assenza e creerebbero gravi problemi nel caso non potessero essere sostituite…” [7]. Al di là della forma, davvero inopportuna e offensiva nella sostanza (“rifornimento esterno” riferito a infermieri, stesso gergo che si usa ad una pompa di benzina), a differenza di quanto affermato dagli estensori del documento gli infermieri professionali in emodialisi apportano un bagaglio fondamentale di conoscenze critiche per il processo erogativo, che risulta in genere costituito da decine di passaggi di cruciale importanza. Un errore in uno solo di questi passaggi può comportare un incidente di gravità anche notevole, fino al decesso del paziente. Basti pensare:
- al delicato processo di gestione degli accessi venosi centrali, in cui un semplice errore di procedura può causare un’infezione disseminata fatale [38] [39];
- al rischio di embolia gassosa in corso di rimozione di un catetere da dialisi, sostituzione delle linee di dialisi, restituzione di sangue al paziente attraverso la linea venosa, in assenza di una scrupolosa gestione infermieristica [40];
- al posizionamento scorretto dei cerotti in corrispondenza delle linee di dialisi, che può aumentare il rischio di venous needle dislodgement, o alla mancata sorveglianza dell’accesso vascolare durante la seduta dialitica [41].
L’elenco potrebbe proseguire molto a lungo.
La carenza di personale infermieristico e l’eccessivo turnover sono problematiche evidenti da molti anni [42]. Stanchi di un lavoro pesante, di orari impossibili, di doversi prendere cura di malati sempre più gravi, molti infermieri in tante parti del mondo lasciano il lavoro prima che se ne riescano ad assumere altri. Solo negli Stati Uniti, sarebbero necessari centinaia di migliaia di infermieri in più. Ed è così anche in Europa e in Italia. Il settore dell’emodialisi non fa eccezione, ed è inoltre ben noto in letteratura come l’outsourcing sia pressochè invariabilmente legato all’aumento del turnover [43]. A proposito di questa problematica, Diaz-Buxo e collaboratori sottolineano come “the high turnover significantly increases the cost of provision of therapy by reducing the productivity of personnel during training, compromises continuity of care and has the potential to increase error [44].
Oltre a rimarcare il maggior rischio di errori legato al turnover eccessivo, emergono da questa frase due concetti molto importanti.
Primo, l’eccessivo turnover finisce in realtà con il causare un aumento dei costi, non soltanto per la riduzione di produttività durante il training, ma anche per i costi spesso elevatissimi legati all’aumento degli errori. Ad esempio, un solo ricovero in Rianimazione per una sepsi severa, legata alla gestione inadeguata di un catetere venoso centrale per emodialisi, può comportare un costo a carico del Sistema Sanitario Nazionale di decine di migliaia di euro, per il solo periodo della degenza [45] [46], a cui si aggiungono altre decine di migliaia di euro nei tre anni successivi alla dimissione [47], per coloro che hanno la fortuna di sopravvivere.
Secondo, ma non meno importante, l’elevato turnover del personale compromette la continuità della cura e priva la struttura di un enorme bagaglio di esperienza e competenze. Ciò è ancora più grave se si pensa al ruolo importante del medico, e ancor più dell’infermiere, nella gestione degli aspetti psicologici del paziente emodializzato. E’ esperienza comune come il paziente emodializzato senta il forte bisogno di punti di riferimento solidi. Molti pazienti, ad esempio, chiedono con insistenza che la loro fistola arterovenosa- che per loro rappresenta la vita- venga punta solo da un determinato infermiere, di cui hanno assoluta fiducia. Infatti, sono gli infermieri che passano la maggior parte del loro tempo con gli ammalati, e che si accorgono per primi se il malato peggiora. Infine, gli infermieri si occupano veramente di tutto: fanno i prelievi, puliscono gli ammalati, somministrano farmaci e trasfusioni di sangue, fanno funzionare macchine sofisticatissime, come quelle di dialisi, nelle emergenze rianimano. Deve essere quindi ribadito con forza il ruolo crescente degli infermieri professionali di dialisi, che si estende sempre di più ai processi decisionali [48] [49] e di cura [50] [51].
L’importanza strategica dell’emodialisi come core competency della sanità pubblica
In poco meno di 300 dei 325 ospedali pubblici italiani, che rappresentano la struttura portante della rete nefrologica, esiste un’unità operativa di nefrologia e dialisi, complessa o semplice, che garantisce al paziente nefropatico l’intero percorso assistenziale, dalla diagnosi precoce all’ambulatorio, fino al trattamento sostitutivo. In una minoranza di casi, sono state operate delle esperienze di esternalizzazione con il coinvolgimento di provider di dialisi privati, o di partnership pubblico-privato, nelle quali i nefrologi responsabili hanno cercato, con maggiore o minore successo, di adattare il proprio reparto alla realtà locale nella maniera migliore possibile.
Alla luce di quanto finora esposto, l’assetto attuale non si gioverebbe di una maggiore apertura verso il privato for profit. Le aziende pubbliche, o le aziende non profit ben gestite, garantiscono certamente le migliori cure, e potenzialmente costi complessivi più bassi, rispetto a quelle for profit. Ciò è vero tanto negli Stati Uniti che in altre realtà, anche Europee [18] (full text), [24] [25] [52] Sarebbe imperdonabile se una scarsa coscienza strategica inducesse incautamente le aziende sanitarie ad esternalizzare su larga scala le cruciali attività di diagnosi e cura nefrologiche, in primis l’emodialisi, per mere ragioni di convenienza economica nel breve termine. L’outsourcing dell’intera filiera dei servizi nefrologici, auspicato da alcuni [7], ha implicazioni potenzialmente negative per l’azienda pubblica, in quanto si esternalizza non solo la gestione del servizio, ma anche la sua progettazione. In questo caso, l’azienda pubblica rischia di privarsi irrimediabilmente di competenze e di capacità di innovazione e sviluppo. Ciò vale anche nel caso delle partnership pubblico-privato in cui la controparte privata sia for profit. Intendiamoci, il ‘privato-privato’, ovvero che non riceve soldi dal Sistema Sanitario Nazionale, ha tutto il diritto di essere for profit. Ma un partner privato che riceva denaro pubblico, non dovrebbe essere non profit?
In conclusione, la dialisi, come tutti i servizi di diagnosi e cura, dovrebbe restare una core competency delle aziende sanitarie pubbliche, o al massimo aprirsi a partnership pubblico-private che coinvolgano organizzazioni non profit. Ciò per tutelare in primo luogo il diritto dei pazienti alla continuità e alla qualità delle cure [52], che deve essere sempre e comunque svincolata da logiche di profitto che nulla hanno a che vedere con la mission del servizio pubblico. Ogni ipotizzata riduzione dei costi, in un campo così delicato perché si sta parlando della salute degli ammalati, dovrebbe in primo luogo mirare a ridurre gli sprechi, per esempio non usando farmaci costosi se non c’ è evidenza che servano, piuttosto che ignorare la priorità che il presidio ospedaliero deve assicurare all’ efficacia ed all’appropriatezza degli interventi, alle quali non può venire meno se non rinnegando la propria natura.